Le vie della città sono organismi viventi. Nascono per le casualità di uno sviluppo urbanistico sepolto nelle nebbie del tempo. Crescono e si sviluppano, vanno ad impreziosirsi di chiese ricche di opere d’arte, lambiscono i palazzi del potere, accolgono i commerci e i locali alla moda. Si popolano via via di persone,  e la vita tranquilla delle epoche passate diventa sempre più frenetica con l’avvicinarsi al presente. Poi, per qualche motivo, cominciano a declinare.

A Viterbo, Corso Italia è un organismo vivente. E’ nato nel lontanissimo Medioevo soffuso di mito, quando  dal primitivo insediamento urbano intorno al colle del Duomo, si cominciano a creare altri nuclei abitativi come il Vico Cavalluccolo, mucchietto di casupole nella zona dell’odierna piazza del Comune, e poi ancora il vico di S. Maria del Poggio, nelle vicinanze dell’odierna piazza Verdi. Il neonato Corso era una direttrice che scorreva parallela al fiume Urcionio, e raggiungeva via via altri agglomerati di case e chiese. Con il passare dei secoli diventò sempre più importante e prestigioso, perché nel frattempo era sorto il Palazzo dei Priori, il centro del potere cittadino. Nel Rinascimento il Corso diventò parte di uno dei due percorsi principali della città, voluti da Alessandro Farnese. Uno congiungeva porta Fiorentina con la zona della Trinità; il nostro corso invece apparteneva alla direttrice che da porta Romana tagliava diritta fino al palazzo del potere, proseguiva percorrendolo e arrivando all’odierna piazza Verdi, dove svoltava in direzione porta Fiorentina, creando così un triangolo.

Foto tratta dall’archivio di Valerio Giulianelli

Certamente nel corso della sua vita ha cambiato nome: prima della seconda guerra mondiale si chiamava Corso Vittorio Emanuele. Era già la via più alla moda e festaiola di Viterbo: banche, lussuosi negozi di abbigliamento, fastose gioiellerie, antiquari e rivenditori di tappeti preziosi. Le vetrine ammiccavano alle signore ingioiellate che passeggiavano con il cappellino a braccetto con i loro accompagnatori. Ma la sua gemma più preziosa era il Gran Caffè Schenardi, nato sul finire del Settecento come Albergo Reale, e diventato nel 1820 di proprietà del napoletano Raffaele Schenardi, che lo trasformò in ristorante e caffè. Nel corso del tempo, da Schenardi si fermarono delle vere celebrità: Garibaldi, re Vittorio Emanuele, Guglielmo Marconi, papa Gregorio XVI, Benito Mussolini. Più di recente, Orson Welles, re Gustavo VI di Svezia, Alberto Sordi, Federico Fellini. Il Gran Caffè Schenardi venne dichiarato di particolare interesse storico e artistico dal Ministero dei Beni Culturali. Corso Italia era nel momento di massimo fulgore.

Negli anni Ottanta la maggior parte dei negozi cittadini si trovava in Corso Italia; le mode nel vestire trascinavano frotte di ragazzi davanti alle loro vetrine sfavillanti. Si passeggiava facendo le “vasche”; si incontravano gli amici, ci si fermava a parlare in gruppetti. Si prendeva il gelato da Chiodo, soltanto cioccolato e panna, ma qualcosa di unico. Il Corso era frequentato da folti gruppi di militari di stanza alle caserme cittadine, che poi in serata sciamavano nei ristoranti e nelle trattorie. Il cinemino che prendeva il suo nome si era illuminato di rosso, suscitando ammiccamenti tra i più giovani. Ricordo che a Carnevale il Corso diventava teatro di battaglie a colpi di uova e farina. E a Natale si stendeva un tappeto rosso per accogliere i visitatori. Per non parlare della folla festante di Santa Rosa.

Poi, come tutti gli organismi viventi, è cominciato il suo declino. I negozi hanno abbassato le saracinesche, per trasferirsi nei più comodi centri commerciali: cartelli Affittasi e Vendesi occhieggiano sempre più frequenti. Attività commerciali aprono per poi immediatamente sparire. Dopo una girandola di chiusure e di aperture, Schenardi è stato perfino un Mc Donald’s, per poi chiudere di nuovo. La gente ha smesso di passeggiare in massa e di fare la maggior parte degli acquisti al Corso. Quel capitale sociale ingente che si era creato per la presenza delle persone, è quasi svanito. La via, un tempo la più importante e prestigiosa della città, agonizza sotto i colpi di una pianificazione economica a nostro parere dissennata, e forse anche perché la società è cambiata. Sembra che anche parcheggiare al Sacrario e farci una passeggiata al Corso sia diventata per noi una fatica insostenibile: meglio intrupparci nelle auto e trascorrere ore negli ingorghi del traffico, per raggiungere anonimi centri commerciali, freddi ed impersonali.

Farsi un giro in un’altra qualunque città di Italia, dove le amministrazioni hanno investito nel centro storico, non fa che aggiungere malinconia: lì i Corsi sono pieni di negozi e di gente. E non c’entra nulla il parcheggio vicino: in quelle città, popolate da gente come noi, il traffico nel centro è vietato.

Nessun centro commerciale moderno può competere con un centro storico riqualificato e fiorente: in un centro commerciale non c’è poesia, non c’è storia, non ci sono ricordi. Torniamo a frequentare il nostro Corso, dandogli un’altra possibilità. Torniamo a creare ricordi, e speriamo che la prossima amministrazione cittadina dia finalmente la svolta che tutti aspettano, investendo nel centro storico che ci fa compagnia da secoli.

Anonimo

Scritto da:

Donatella Agostini

Imparare cose nuove è il mio filo conduttore, darmi sempre nuovi obiettivi la mia caratteristica fondamentale. Valorizzare la terra in cui vivo è il mio progetto attuale.