“Era il febbraio del 1956. Avevo sei anni quando la neve cominciò a cadere: lenta, elegante, delicata e soffice. Era la prima volta che la vedevo. Era la prima volta che Viterbo mi appariva in una veste irreale e abbagliante: era sempre la mia città, eppure era diversa. Tutto era bianco: il cielo, le strade, i tetti, e la luce mi inondava gli occhi.


Al mattino la mamma aprì l’uscio di casa e scoprì che eravamo bloccati, così il babbo imbracciò la pala e scavò un lungo camminamento nella neve. Tutti gli abitanti del quartiere fecero altrettanto, così si formarono tutte trincee, con le pareti molto più alte di me.

Foto di Marisa Cimarello


Nell’aria si sentiva il dolce profumo della legna che ardeva per scaldare le case. E, meraviglia, le scuole erano state chiuse. Così noi bambini potevamo giocare tutto il giorno. Nelle piazzette facevamo i nostri pupazzi, con gli occhi fatti con pezzetti di carbone e due stecchi di legno per braccia. Qualcuno, tra i ragazzi più grandi, scivolava giù dai pendii di neve con gli slittini fatti con tavole di legno; altri si erano inventati degli sci, fatti con i listelli delle botti legati alle scarpe.


Ma il mio divertimento preferito restava quello di mettere le pietrangole nell’orto di casa. Mi sentivo allora un potente cacciatore, quando riuscivo a catturare un uccellino con le trappole di legnetti e pietre che preparavo io stesso. E mi sentivo importante quando portavo le mie prede alla mamma, quasi che contribuire al mantenimento della famiglia facesse di me un uomo.


Una mattina scesi all’orto e vidi subito la mia trappola, che spiccava sul mantello bianco e soffice di neve appena caduta. Avevo catturato un piccolo pettirosso: l’uccellino mi guardò spaventato e pigolò debolmente. Io lo presi delicatamente in mano e lo osservai a lungo. Tremava, per il freddo e per la paura. Qualcosa dentro di me si mosse per non tornare mai più come prima. Appoggiai delicatamente l’uccellino al ramo di un arbusto e gli ridiedi la sua libertà”.

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Erano i primi giorni di febbraio del 1956. Il tre febbraio a Viterbo la temperatura minima toccò meno 6 gradi. La massima arrivò a meno tre. Cominciò a cadere la neve. All’inizio non creò problemi. Le auto in circolazione erano ancora molto poche. I viterbesi, adulti e bambini, accolsero l’ospite bianca con gioia infantile.

Quella nevicata di inizio febbraio sembrava destinata a durare poco tempo, così come tutte le nevicate che a volte imbiancano la Città dei Papi. D’altra parte, non era possibile conoscere le previsioni meteorologiche: la televisione non era diffusa nelle case, si poteva vedere soltanto nei bar che ce l’avevano. Infatti, quando dopo qualche giorno riprese a nevicare, il fenomeno sorprese un po’ tutti. Ore ed ore, giorni e giorni, nottate e nottate di nevicate. La neve coprì tutto. Soffocò tutto.

Foto tratta dalla pagina Facebook “Viterbo, memorie e cartoline”


Le prime a chiudere furono le scuole, di ogni ordine e grado. Si fermarono i trenini della Roma Nord. In città, gli operatori ecologici di allora cominciarono a spalare la neve nelle vie e nei vicoli, le scalinate e gli accessi alle case e ai negozi. I contadini rimasero chiusi in casa, e molti non poterono recarsi ai loro poderi a dare da mangiare agli animali. La gente era forte, frugale e parsimoniosa, e la nostra economia, essenzialmente agricola, aveva rifornito per tempo di provviste le abitazioni: farina, vino, olio, patate, il maiale appena macellato. La legna per il riscaldamento, raccolta nelle macchie nei mesi precedenti, non mancava. Il manto bianco cresceva, giorno dopo giorno, come l’impasto del pane che le donne preparavano ogni giorno.

Foto di Maria Consiglia Pompei

Dopo una decina di giorni cominciarono i guai. I generi alimentari cominciarono a scarseggiare, così come le scorte di legna da ardere. Nelle farmacie cominciavano a mancare i medicinali. Spalare la neve dai tetti e davanti le entrate delle abitazioni era diventato un lavoro sfiancante e penoso: ore ed ore di lavoro reso vano il mattino successivo.

Nei paesi arroccati sui monti Cimini era ormai emergenza. Per assicurare loro i rifornimenti necessari, gli elicotteri facevano spola da piazza Martiri d’Ungheria, dove era stata allestita una piazzola di atterraggio. La situazione durò così per tutto il mese di quel lontano febbraio. Poi arrivarono i primi raggi del sole primaverile, e il nevone si sciolse.

Sono passati sessantacinque anni da allora, e c’è ancora qualcuno che, guardando scendere dal cielo i fiocchi che anche oggi hanno imbiancato la nostra città, ricorda il famoso nevone. Con una malinconia affettuosa, quella che si riserva ai ricordi più cari della propria esistenza.


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Anonimo

Scritto da:

Donatella Agostini

Imparare cose nuove è il mio filo conduttore, darmi sempre nuovi obiettivi la mia caratteristica fondamentale. Valorizzare la terra in cui vivo è il mio progetto attuale.