Con la visita al Complesso della Trinità siamo giunti al termine delle nostre visite virtuali di Andar Lento, raccontare Viterbo tra storia, aneddoti e giardini.Abbiamo voltato nuove pagine del grande libro del mondo che ci circonda seppure in modo virtuale, in attesa di poter, finalmente, viaggiare di nuovo, e non soltanto con la fantasia.
Grazie di averci seguiti nei nostri appuntamenti. Il ringraziamento è da parte di Promotuscia, dell’Ufficio Turistico di Viterbo, di Visit Viterbo, della St. Thomas’s International School, e naturalmente, da RaccontiAmo Viterbo.

Buona visione!

Diceva Sant’Agostino che il mondo è come un grande libro, e chi non si sposta dalla propria casa legge solo una pagina. Di questi tempi, spostarsi è proibitivo. Lo facciamo noi per voi, attraverso questi appuntamenti di “Andar lento, raccontando Viterbo tra storia, aneddoti e giardini”. E oggi iniziamo il nostro racconto con una frase di Sant’Agostino perché stiamo per andare a visitare il complesso agostiniano della Trinità di Viterbo.

Dove ora si trova questo maestoso complesso della Trinità, nella Viterbo del dodicesimo secolo era un’area periferica, che venne poi popolata con gli immigrati forzati provenienti da Ferento. Spesso gli Agostiniani vengono chiamati anche Eremitani, perché inizialmente erano gruppi di eremiti che si ritiravano in luoghi desertici per praticare una vita di preghiera. Infatti a Viterbo gli agostiniani si trovavano inizialmente a Monterazzano, una zona disabitata al tempo. Ma nella prima metà del Duecento avviene una sorta di rivoluzione, la loro regola cambia: non più soltanto contemplazione, ma predicazione e insegnamento. Gli Agostiniani devono andare in città. Così acquistano un terreno nei pressi di porta Bove e cominciano a costruire il loro convento.

La prima chiesa era in stile gotico, più piccola di quella esistente ed era anche diversamente orientata, cioè verso il Palazzo Papale. Pochi decenni dopo anche quest’area verrà inglobata dalla nuova cinta muraria cittadina. Il complesso viene inaugurato nel 1258 da papa Alessandro IV – cioè il papa che trasferisce la sede pontificia a Viterbo. La fondazione agostiniana di Tuscia assume una grande importanza fin dai primi decenni di vita;  esprime diversi beati della congregazione come Giacomo da Viterbo, importantissimo teologo e filosofo dell’epoca, e Egidio Antonini, meglio conosciuto come Egidio da Viterbo, priore dell’ordine, filosofo e teologo, cardinale e patriarca di Costantinopoli. Alcuni dei consigli dell’ordine che ne stabiliscono le regole si svolgono a Viterbo, che diventa in quel periodo la struttura agostiniana più importante del Centro Italia.

Ma i Viterbesi conoscono questo complesso soprattutto con il nome di Santuario di Santa Maria Liberatrice. Ci troviamo infatti ora davanti alla cappella di Santa Maria Liberatrice: l’immagine sacra che vedete è considerata miracolosa. Nel 1320 Viterbo era diventata teatro di gravi calamità, violenze e ingiustizie, acuite dal fatto che la sede papale era stata trasferita ad Avignone. Il territorio era scosso dall’aspra contesa tra guelfi e ghibellini, che veniva portata avanti dalle famiglie nobili della città, divise tra loro. I cronisti viterbesi narrano di un mese di maggio particolare e di una catastrofe di tipo meteorologico: il cielo si annerisce e si copre di scie di fuoco, cavalcate da demoni volanti. La narrazione ha una esagerazione enfatica, ma in quel lontano mese di maggio ci fu sicuramente un temporale fuori dalla norma, il buio in pieno giorno nel mese della luminosità, forse accompagnato da qualche fenomeno sismico. Ma ecco che la Madonna apparve in una cappella della chiesa, ed esortò i cittadini viterbesi a pregare. Con il suo intervento le frotte di demoni alati vennero scagliati nelle acque ribollenti del Bullicame dove annegarono. Al termine rimasero danni in città, ma i cittadini restarono incolumi. L’immagine diventò subito oggetto di culto cittadino.

Ammiriamo quindi questo maestoso altare di santa Maria Liberatrice, con l’affresco con l’immagine della Madonna con Bambino, che risale al 1320, anno dell’evento miracoloso. Gli autori furono due pittori giotteschi, Gregorio e Donato di Arezzo. A lato si notano numerosi ex voto e lunghe catene di ferro: sono quelle portate in dono alla Vergine da venticinque prigionieri cristiani, scampati miracolosamente alla schiavitù dei Saraceni. Per rimanere in tema di affreschi, vi invito ad ammirare lo splendido ciclo pittorico del chiostro rinascimentale.



Nel 1505 il cardinale Fazio Santoro, particolarmente devoto alla Madonna Liberatrice, volle riedificare a sue spese la chiesa e fece realizzare trentasei colonne di peperino. Ma il cardinale morì mentre si stavano realizzando le colonne. A questo punto entrò in scena Egidio da Viterbo, priore generale, che decise di utilizzare quelle colonne per ricostruire il chiostro, uno dei più belli di epoca rinascimentale.

E gli affreschi?, direte voi. Un secolo esatto più tardi il cavaliere viterbese Giacomo Nini, morì e lasciò in eredità al convento agostiniano la somma di duecento scudi, perché venisse dipinta nel chiostro la vita di sant’Agostino. Il lavoro fu affidato al pittore romano Marzio Ganassini, che lo realizzò in soli sei mesi. Il ciclo è un’opera grandiosa, lunga centotrenta metri, con quarantaquattro grandi quadri rettangolari.

Qui sono tanti gli ambienti che da secoli custodiscono preziose opere d’arte; tra questi merita di essere visitata la sala del Cenacolo, antico refettorio dei frati. È un grande salone al quale si accede oltrepassando un portale in peperino, sul quale è incisa la frase Cum sobrietate. Fu sempre la famiglia Nini a farvi dipingere le pareti: gli affreschi che vedete risalgono alla fine del Quattrocento. Quella che vedete in fondo è una tela con l’Ultima Cena di Gesù. Tra i frati raffigurati si riconoscono il beato Giacomo da Viterbo ed Egidio Antonini.

Vi è infine l’antico orto del monastero. La natura invernale sembra dormire un sonno ristoratore, dopo il rigoglio delle belle stagioni. Soltanto le piante di agrumi occhieggiano allegre dal muro di peperino. Ovunque le tracce del lavoro dei monaci, e soprattutto del sig. Marcello Fortunati, che da decenni cura con amore quest’orto insieme alla moglie. Ma, anche nella sua veste più dimessa, la vista di questo orto, ostinatamente ritagliato tra i palazzi cittadini, ha il potere di rallegrare il cuore e la mente.
Usciamo all’aperto, per dirigerci a passo lento verso il grande oliveto del monastero. Costeggiamo un bel giardino all’italiana, e la struttura esterna della St. Thomas’s International School, partner del nostro progetto.
Qui di seguito si stendono centinaia di olivi ben curati, che di recente hanno fornito ottimo olio. Alcuni di essi sono centenari. L’orto, il vigneto e l’oliveto danno il sostentamento al monastero, proprio come accadeva secoli e secoli fa.

Anonimo

Scritto da:

Donatella Agostini

Imparare cose nuove è il mio filo conduttore, darmi sempre nuovi obiettivi la mia caratteristica fondamentale. Valorizzare la terra in cui vivo è il mio progetto attuale.