La notte fresca e odorosa di gelsomini lasciava il passo alla luce del mattino, quando Muzio Attendolo Sforza, capitano di ventura, diede un calcio alle ceneri ormai spente del fuoco. I suoi uomini la sera prima avevano acceso quei fuochi presso Ferento per tenere lontane le bestie e per far cuocere i conigli selvatici, che avevano schidionato tra bestemmie e storielle scostumate, tipiche delle truppe di ventura.

Papa Martino V era stato molto chiaro con lui quando gli aveva ordinato di incontrare Braccio da Montone, ma quell’avanzo di papali galere, quel prepotente non si era fatto trovare. Tutti gli uomini al suo soldo sapevano bene che tipo era Braccio, uno sgherro che da qualche tempo stava tiranneggiando tutti i paesi ad Ovest del fiume Tevere.

La mattina del 14 giugno dell’Anno del Signore 1419 non è una mattina come tutte le altre. Ripresa la via verso Viterbo nei pressi di Piscin di Polvere uno strano presentimento fece tremare Muzio Attendolo. Si guardò indietro e nel momento esatto in cui i suoi occhi incrociarono quelli di Riccio da Viterbo capì che stavano cadendo in un agguato. Braccio da Montone, proprio lui il maledetto, gli aveva fatto un’imboscata.


– Forza, correte, riparate verso quelle rocce!
– Signore hanno fatto prigionieri, dateci ordini.

Muzio dopo aver dato una rapida occhiata a quel che rimaneva dei suoi uomini, si girò e con tutta la voce che gli era rimasta in gola gridò :- Verso Viterbo, Porta San Sisto è la nostra salvezza.
Un piccolo drappello si accodò al Capitano e lo seguì giù verso la città.
Una volta dentro Viterbo lo Sforza sentì venire meno tutte le sue forze, ma sapeva che Braccio da Montone e il suo degno compagno di avventure, il Tartaglia, come era nomato Angelo di Lavello, non avrebbero mollato la presa.
– Signore i viterbesi sono con noi! Gridò Riccio.
Quella stessa sera si intrufolò nell’accampamento nemico e vi portò grande scompiglio.

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Riccio da Viterbo fu un valoroso combattente di cui si conoscono poche notizie, ma tutte concordi nel sottolinearne l’ardimento e lo spirito cavalleresco. Secondo alcuni Riccio discenderebbe da un ramo cadetto dei Capocci, infatti è lo stesso Riccio “valente conductier de gente d’arme” citato dai cronisti viterbesi quattrocenteschi. Giuseppe Signorelli, storico viterbese, non ha dubbi e lo identifica con Angelo Capocci.

Anonimo

Scritto da:

Nadia Proietti

Salve, il mio professore di storia ripeteva sempre che lo storico studia i documenti, senza interpretare
e senza romanzare, ecco come mi comporto io: prendo i fatti storici, spesso dai documenti, aggiungo
dei personaggi, una storia verosimile e voilà ecco come nasce ogni mio racconto.
Chi sono? Mi chiamo Nadia sono laureata con lode in Filologia Moderna, ho all'attivo un Master in materie letterarie, un Corso di Alta Formazione in Storytelling, docente di lettere precario. Oltre ai titoli sono madre di due figli, appassionata di storia moderna in particolare in storia dell'Europa
dell'Est, pessima casalinga, ma buona padrona di casa.