Albert osserva la finestra grigliata e smozzicata di filo spinato, e oltre quella i piccoli quadrati di cielo grigiastro che gli è concesso di vedere. E capisce che è quasi l’alba.

Da quando è stato internato in quel luogo infernale, Albert sa poche cose, che ripete a se stesso come un ultimo disperato aggancio alla ragione. Sa che era un ufficiale della Marina di Sua Maestà. Sa che è in corso una schifosa guerra. Sa che il 2 agosto 1940 il sottomarino su cui era imbarcato è entrato in collisione con un cacciatorpediniere italiano, e che lui e una cinquantina di suoi compagni sono stati fatti prigionieri. Albert ricorda il primo campo di concentramento in Abruzzo, il freddo urlante di quelle montagne e la sua voglia disperata di sopravvivere. Poi il trasferimento a quest’altro campo, stavolta nell’alto Lazio.

Qui il clima è più mite, ma Albert continua a vedere intorno a sé la morte e la sofferenza. E quella voglia di sopravvivere è tornata, più forte che mai, più feroce e totalizzante di ogni altro pensiero. Albert sa che non vuole passare un altro giorno in più in questo luogo dimenticato da Dio e dalla pietà, e che domani proverà a scappare. Ci pensa ormai da mesi, e ha organizzato tutto. Ha trovato una vecchia tuta blu da operaio, che indosserà sopra la lacera divisa da prigioniero. Ruberà una bicicletta agli operai che vengono a lavorare al campo, e pedalerà con le ultime forze che gli sono rimaste, lontano per sempre da questi muri e da questo filo spinato. Volando in braccio alla libertà, e alla vita.

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C’è un luogo dimenticato nei dintorni di Cura di Vetralla. Regna un silenzio greve, gonfio come una nuvola carica di pioggia, e un’ombra grigia sporca il verde squillante dei prati. Tra alberi stenti, un trionfo di rovi e di piante rampicanti sta ricoprendo lentamente una decina di vecchi edifici, dalle piccole finestre strette e orlate di filo spinato.
Non tutti sanno che qui, nella quiete della campagna, tra il 1942 e il ’43 fu operativo un grande campo di concentramento per la detenzione di prigionieri militari catturati dai nazifascisti. Il campo di concentramento di Vetralla era il primo nel Lazio e il terzo in Italia per numero di prigionieri. Ne arrivò a contenere quattro mila.
Tra di essi, Albert Edward Penny, ufficiale della Marina Britannica, che all’alba del 5 ottobre 1942 riuscì ad evadere dal campo a bordo di una bicicletta rubata. Albert riuscì a percorrere tutto d’un fiato gli ottanta chilometri che lo separavano dal Vaticano, e andò a chiedere aiuto al ministro britannico presso la Santa Sede, che lo tenne con sé al sicuro fin quando non venne rimpatriato, il 3 gennaio 1945.

Chi non conosce la storia è destinato a ripeterne gli errori. Ma per conoscere a fondo la storia dobbiamo anche preservare i luoghi in cui essa si è manifestata, nel bene e nel male. Il campo di Vetralla, se ripulito e valorizzato, potrebbe diventare un luogo della memoria. Dove portare i nostri figli e i nostri nipoti, e spiegare una volta di più che la guerra è un orrore.

foto tratta dal sito www.slideshare.net

Anonimo

Scritto da:

Donatella Agostini

Imparare cose nuove è il mio filo conduttore, darmi sempre nuovi obiettivi la mia caratteristica fondamentale. Valorizzare la terra in cui vivo è il mio progetto attuale.