“Jaromir, stai seduto composto! E smetti di infastidire tuo fratello”. La voce severa della baronessa, voltata verso i sedili posteriori dell’auto, non riesce a celare un pizzico di indulgenza. È il 12 luglio del 1921, il sole caldo del pomeriggio picchia sull’autovettura e i bambini cominciano ad essere stanchi per il lungo viaggio. Quella mattina, la baronessa Catherine Beckett, insieme ai suoi figli Paul, Edmund e Jaromir, hanno preso posto sulla lussuosa Alfa Romeo Torpedo, insieme al loro autista. Hanno lasciato Roma per una gita ad Assisi, dove hanno assistito alla messa. Si sono fermati a pranzo ad Orvieto, e lungo la via del ritorno vogliono fermarsi a Viterbo e visitare i monumenti.

Jaromir, annoiato, decide di fare di nuovo il solletico a Paul, quando l’autovettura si ferma ad un posto di blocco. Strani congegni di legno irti di chiodi di ferro sono disseminati davanti ad una grande porta cittadina, e numerosi militari in divisa armati stazionano di fronte ad essa, sbarrando il passaggio. Uno di essi, con uno strano cappello in testa, si avvicina al finestrino e scambia qualche parola con la mamma e l’autista. Lei smette di sorridere e fa una strana espressione. Il militare indica la direzione da prendere, e l’auto riparte, costeggiando lentamente le alte mura di pietra. I due adulti hanno la preoccupazione negli occhi. “Mamma, che succede? Non ci fermiamo più?”, chiede Jaromir. La mamma non risponde, mentre il suo sguardo saetta nervoso a destra e a sinistra. All’improvviso, Jaromir sente una scarica di colpi lungo la fiancata dell’auto. Il rumore è assordante: i passeggeri urlano in preda al terrore, mentre l’autovettura accelera. Una nuova grandinata di proiettili colpisce l’Alfa Romeo: Catherine urla ancora e si volta verso i suoi figli: l’abitacolo è invaso da un odore soffocante di cordite e di sangue. L’auto si ferma e la donna scende dall’auto a braccia alzate. Paul apre la portiera e cerca di nascondersi sotto l’auto, ma viene centrato ad una gamba. “Fermatevi! Non sparate! Ci sono dei bambini!” urla disperata Catherine in italiano. I tiratori si interrompono. Sul sedile, Jaromir sembra addormentato, mentre un filo di sangue gli scende dalla tempia.

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Oggi voglio raccontarti la storia di un ragazzo morto troppo presto, e troppo presto dimenticato. Se un giorno di primavera cammini lungo viale Raniero Capocci, e arrivi nei pressi dell’ingresso posteriore del Monastero di Santa Rosa, ti troverai davanti a un pendio erboso. Vedrai le rovine sparse dell’antico palazzo di Federico II, ed emergere un po’ nascosta una croce in peperino. Se ti avvicini abbastanza, potrai leggere che la croce è in memoria di Jaromir Czernin, un quindicenne austriaco di passaggio a Viterbo, e qui morto tragicamente per una serie di drammatiche circostanze.

Era il 1921, e di lì a breve l’Italia sarebbe precipitata nel gorgo di un regime dittatoriale, trascinata dalla crisi economica e sociale del primo dopoguerra. Dopo un primo periodo di battaglie sindacali e rivoluzionarie, il nazionalismo reazionario stava prendendo piede, alimentato anche dalla delusione per gli scarsi risultati del primo conflitto mondiale, che aveva fatto parlare di “vittoria mutilata”. In molte città italiane, tra cui Viterbo, si moltiplicavano gli scontri tra le organizzazioni di sinistra e le nascenti formazioni dello squadrismo nero.

Il 10 luglio del 1921 a Viterbo nasce ufficialmente il fascio italiano di combattimento locale. Scoppia una colluttazione tra camicie nere e anarchici e socialisti, nella quale trova la morte un inerme contadino estraneo alla zuffa. I fascisti sono costretti ad abbandonare la città, ma promettono di tornare presto armati per vendicarsi. Si costituisce velocemente un comitato di difesa cittadina, pronto ad intervenire qualora essi mantengano la minaccia.

Due giorni dopo si celebra il funerale del povero contadino, e ci si aspetta il nuovo assalto dei fascisti. Forze armate presidiano i punti di accesso alla città. Le truppe del 60° Reggimento Fanteria, stanziate nelle caserme viterbesi, sono chiamate a controllare le porte di Viterbo e a sbarrarne l’accesso con i cavalli di Frisia. Diversi cittadini armati fino ai denti vigilano sulle mura cittadine. Una mitragliatrice posizionata nel palazzo della Prefettura, controlla l’accesso a piazza del Comune. La tensione è palpabile e attanaglia tutta la città in un crescendo spasmodico.

All’improvviso, accade l’imprevedibile. Intorno alle 16 e trenta, un’Alfa Romeo Torpedo arriva a piazzale Umberto I, oggi noto come Piazzale Gramsci. La guida una nobildonna inglese, Lucille Catherine Beckett, figlia del II° Barone di Grimthorpe ed ex consorte del conte Otto von Czernin, ambasciatore per conto dell’Impero Austro-Ungarico presso la Santa Sede durante la prima guerra mondiale. Con lei tre dei suoi quattro figli, Paul, Edmund e Jaromir e l’autista italiano Enrico Pastecchi. Ignari della situazione potenzialmente esplosiva, vorrebbero visitare la città per poi proseguire verso Roma. Al posto di blocco l’ufficiale in comando illustra alla signora la situazione, e le consiglia di andarsene velocemente. Ma per la disorganizzazione e la mancanza di comunicazione tra militari, non le suggerisce di tornare indietro e fare un’altra strada: li fa proseguire lungo la Cassia, costeggiando le mura: è un errore che risulterà fatale.

Non appena l’auto svolta su viale Capocci e supera Porta Murata, scambiata per un mezzo degli assalitori, viene subito centrata da una fitta scarica di colpi di fucile esplosi dagli spalti delle mura e dall’antistante terrapieno della ferrovia. Il veicolo continua la sua corsa nella speranza di riuscire a mettersi in salvo. Arrivati sotto le mura del monastero, gli spari cessano per un attimo per poi riprendere con maggiore violenza.

Quando la baronessa si accorge che sul sedile posteriore Jaromir ormai è morto, colpito alla testa, finalmente ferma la macchina, ma nel disperato tentativo di trovar riparo sotto l’auto, anche Paul rimane gravemente ferito. A quel punto la madre esce allo scoperto e grida in italiano ai tiratori di fermarsi. Il silenzio piomba sulla scena, mentre Catherine piange disperata. Verranno portati all’Ospedale Grande degli Infermi, dove a Paul verrà amputata una gamba. Purtroppo, per Jaromir non c’è niente da fare. La giornata di sangue finirà così, senza più scontri. Rimane soltanto il silenzio, il dolore e il rimorso per una vittima innocente della follia degli uomini.

I funerali di Jaromir Czernin verranno celebrati pochi giorni dopo a Viterbo, e la salma verrà inumata nel cimitero di San Lazzaro, dove si trova ancora oggi. Sulla sua tomba ancora oggi si legge questo epitaffio:

“In memoria di Jaromir Czernin, straniero,

passando per Viterbo il 12 luglio 1921

cadde vittima di cuori infocati da odi e rancori.

Beati i puri di cuore perciocché vedranno Iddio”.

Si ringrazia Mauro Galeotti per le foto dell’articolo

Anonimo

Scritto da:

Donatella Agostini

Imparare cose nuove è il mio filo conduttore, darmi sempre nuovi obiettivi la mia caratteristica fondamentale. Valorizzare la terra in cui vivo è il mio progetto attuale.