Da bambina il profumo della Pasqua era quello emanato dalle “pizze di formaggio”, messe lì in bella mostra sulla spianatoia di legno. Già dal mattino mia madre e mia nonna avevano messo sul fornello a gas una strana mistura fatta di acqua, chiodi di garofano, noce moscata e cannella, sale e pepe, che emanava per casa un profumo d’oriente.

La “bagnarola”, quella in cui si faceva il bucato, lavata ed asciugata per raccogliere la pasta, il formaggio grattugiato, la farina quella buona. Dopo aver fatto bollire la “mistura” che loro chiamavano la “Misticanza” questa era posta sul davanzale della cucina per raffreddarsi. Ogni tanto mia nonna intingeva il suo mignolo nell’acqua per testarne il calore, poi da buona cuoca lo portava alla bocca per assaggiare se stava bene di sale o se mancava un “fricciolo” di pepe.

Ogni anno mio fratello più grande era l’addetto al formaggio, lo doveva grattugiare nella grande zuppiera di porcellana, quella del servizio buono di mamma. Lo prendeva dallo scaffale in fondo alla cucina. Guai a metterlo nel frigorifero, perdeva il suo profumo! Con la “grattacacio” di alluminio iniziava il suo lavoro. Bilancia alla mano ogni tanto gridava “Ancora no? Quanto ne manca?” Ricordo come fosse ora l’espressione di mia nonna mentre gli diceva che ne serviva tanto, sennò venivano sciape.

L’addetta a sbattere le uova, quelle prese dal “gallinaro” e messe da parte da giorni ormai, era mia madre. Iniziava: una, due, tre,.. fino a 20, poi con la forchetta, di quelle che ormai non si trovano più, quelle che lei chiama ancora d’acciaio, iniziava a sbatterle con una velocità che neanche il più potente attrezzo da cucina riuscirebbe ad emulare. Il rumore cadenzato della forchetta che sbatte le uova, quel movimento veloce che tocca il fondo della zuppiera per poi emergere di poco sul pelo del composto, mi ritorna ancora in mente come se fosse un vecchio carillon, rumori ormai passati, soffocati dall’elettricità.

Si passava poi al vero e proprio impasto, si prendeva la bagnarola quella grande, quella celeste che serviva sia per lavare i panni giù alla fontana, che per fare la passata di pomodoro in agosto e naturalmente le pizze di Pasqua. Non vorrei sbagliarmi ma sicuramente era anche quella in cui venivamo lavati noi ragazzini, meglio non indagare oltre, mia madre potrebbe darmene conferma.

Farina, quella presa al mulino, il sacchetto da 5 kilogrammi, alla mano, uova sbattute nella “sartana”, misticanza ormai fredda a portata di mano e il cacio che ormai aveva “impuzzolito” tutta casa. Con il suo fazzoletto colorato in testa, quello a fiori, quello delle occasioni culinarie, le maniche rimboccate fino al gomito, con le sue grosse braccia nude iniziava, come fosse stata un chirurgo, a chiedere. “Uova!” ed ecco mia madre pronta. “Misticanza!” ed eccomi arrivare in scena. La mistura che profumava d’oriente era la mia mansione, una cosa semplice, mi cadeva sempre tutto dalle mani.

Poi arrivava il turno del formaggio pecorino, quello forte, quello con “la coccia nera”, ed arrivava mio fratello con le falangi tutte graffiate dall’impietosa grattacacio. Tutto nella bagnarola celeste, anche l’olio quello buono, e il lievito dal profumo particolare, e si iniziava a sbattere l’impasto, a turno, lì entrava in scena anche mio nonno, uomo abituato al lavoro duro, al lavoro di cava. Allora si sentiva, “sbam”, “Sbam” e la pasta diventava liscia. Le “tielle” (i contenitori) già unte, si iniziava a sporzionare la pasta. Mia nonna supervisionava l’operazione, il grande chirurgo mai lascia i suoi sottoposti, e ripeteva “Due dita di pasta vanno bene”.

Ultima operazione era mettere tutte le teglie sopra al vecchio tavolo in cucina con sopra la coperta a quadrati all’uncinetto, quella dai mille colori. Il forno a legna già acceso, doveva essere giusto, poi con il “monnolo”, una specie di scopa di saggina, ma verde, si ripuliva il piano del forno e dentro le pizze, già lievitate. Ecco ora possiamo dire che è Pasqua diceva mia nonna dopo averle sfornate, era sempre il giovedì della Settimana Santa.

La tradizione delle pizze di formaggio è molto sentita dalle mie parti, io sono di Orte, ma vedo tante pizze in bella mostra anche a Viterbo. Se qualcuno di voi conosce qualche tradizione legata alle pizze si faccia avanti, siamo pronti ad ascoltare.

Buona Settimana Santa a tutti voi.

in copertina: foto delle mie due misere pizzette fatte con tanto amore.

Anonimo

Scritto da:

Nadia Proietti

Salve, il mio professore di storia ripeteva sempre che lo storico studia i documenti, senza interpretare
e senza romanzare, ecco come mi comporto io: prendo i fatti storici, spesso dai documenti, aggiungo
dei personaggi, una storia verosimile e voilà ecco come nasce ogni mio racconto.
Chi sono? Mi chiamo Nadia sono laureata con lode in Filologia Moderna, ho all'attivo un Master in materie letterarie, un Corso di Alta Formazione in Storytelling, docente di lettere precario. Oltre ai titoli sono madre di due figli, appassionata di storia moderna in particolare in storia dell'Europa
dell'Est, pessima casalinga, ma buona padrona di casa.