Dante attaccò il cartello alla porta del suo magazzino.

“Si vende motore – carrettino e macchina del gelato”,
strillava la scritta in maiuscolo. E sotto, in un corsivo più confidenziale:

“Per acquisto rivolgersi a Dante Pizza e Cacio”.

Il nomignolo l’aveva orgogliosamente sottolineato. In una cittadina come Viterbo, in cui tutti si conoscevano per soprannome, scrivere Dante Costantini non sarebbe bastato. Così tutti avrebbero saputo che a breve il carrettino di Pizzeccacio non sarebbe più stato al solito posto, all’angolo tra via Orologio Vecchio e via Teatro del Genio, mescolato al via vai di persone indaffarate e ridenti. Che dispiacere sarebbe stato per tutti!

Ma l’età avanzava, e così pure i malanni, ed era tempo di ritirarsi dall’attività. E sì che lavorava per strada fin da bambino, da quando insieme ai fratelli andava a raccogliere per terra le cicche di sigarette che loro pazientemente disfacevano, per ricavare il tabacco da rivendere ai fumatori di pipa. Però il suo vero mestiere era trotterellare dietro al padre che fabbricava e vendeva gelati. Così aveva imparato tutti i segreti! E da grande aveva voluto un carrettino dei gelati tutto suo, con grandi coperchi metallici a coprire le vaschette. Dante indossava una giacca bianca e lo sospingeva per le vie della città, gridando “Gelati! Gelatiii”, e spalancava ufficialmente le porte della città alla stagione più bella.

“Arriva Pizzeccaciooo!!!”. I bambini che giocavano per strada correvano a casa a farsi dare qualche centesimo, poi andavano ad affollare il carrettino. Il suo gelato era buono da far girar la testa, e ascoltarlo parlare era uno spasso. Pizzeccacio aveva un “dicabbolario del suo” che li faceva scompisciare dalle risate. Lui ascoltava paziente le richieste dei monelli, poi pescava il gelato e riempiva la rotella di cialda, oppure il bicchierino. Due soli gusti di gelato: crema e limone (che era la sua specialità): ma erano più che sufficienti a far toccare il cielo con un dito a chi aveva conosciuto le ristrettezze della guerra.

Quando invece i primi freddi annunciavano l’arrivo dell’autunno, Dante riponeva il carrettino dei gelati e tirava fuori il braciere per le castagne. Accendeva la carbonella e arrostiva i bei marroni dei Cimini, per servire ai passanti le profumate caldarroste, tenute al caldo in un cesto coperto da un panno perché si “appatollassero”. Il cartoccio di castagne calde finiva nella tasca del cappotto di chi andava al cinema e creava un provvidenziale tepore. E a Carnevale allestiva un banchetto tra piazza delle Erbe e il Corso: “Coriandele zigrinate! Stelle filanti a sdràppene!!!!”. “Sdràppene” stava per shrapnel: Dante era stato in guerra, anche se era stato presto riformato, perché da piccolo aveva avuto l’”infantijole”, la poliomielite. Quel brutto ricordo lo esorcizzava nei colori e nell’allegria.

Già, l’allegria: era questo il sentimento prevalente negli anni Cinquanta e Sessanta: la gioia di aver superato tristezze indicibili, la voglia di ricominciare, tutti insieme, a costruire un paese migliore. Per essere felici bastava un gelato al limone, un cartoccio di caldarroste. Non sappiamo chi acquistò l’attrezzatura da Dante Pizzeccacio, ma è certo che quel cartello stava ad indicare che i tempi stavano cambiando. Forse, per certi aspetti, non in meglio.


foto di Dante Costantini tratta da “Uomini, cose e usanze di una Viterbo che passa” di Salvatore Del Ciuco.

Anonimo

Scritto da:

Donatella Agostini

Imparare cose nuove è il mio filo conduttore, darmi sempre nuovi obiettivi la mia caratteristica fondamentale. Valorizzare la terra in cui vivo è il mio progetto attuale.