Marisa scosta la tendina e guarda in strada. Dalla finestra della cucina entra il sole bello e noncurante di un’inarrestabile primavera. È sabato mattina, ma in giro non c’è anima viva. Soltanto il vuoto di un quartiere attonito e diffidente, rinserrato nei palazzoni popolari. C’è in giro un’epidemia, e il numero dei decessi fa paura. Viterbo e l’Italia intera si sono richiuse in se stesse, proteggendosi da quella crudele influenza, e Marisa pensa a quanto sia incredibile e cinematografico tutto ciò. Scaccia i cattivi pensieri rifugiandosi in gesti antichi e prepara le fettuccine, come le ha insegnato sua madre. Arrotola piano la sfoglia a creare un rotolo, lo taglia a fette regolari e svolge le girelle di pasta, come fossero strisce filanti di un carnevale fuori stagione. Intanto, il sugo borbotta tranquillo sul fornello. Marisa si guarda intorno e pensa che anche oggi la sua famiglia starà bene, al sicuro dell’appartamento.

Luca si strofina gli occhi arrossati e si allontana dallo schermo del computer. Controlla ancora se sono arrivati messaggi sul telefonino, ma stamattina i suoi amici sono stranamente silenziosi. Nessuno ha granché voglia di cazzeggiare. Questa vacanza inaspettata da scuola non è così piacevole come sembrava all’inizio. La noia prende la forma di un fantasma grigio che ulula nella sua testa. Prende in mano il libro che gli ha prestato il nonno, ma lo accantona subito: il titolo non promette nulla di buono, e poi ha troppe pagine. Dovrebbe fare i compiti che i professori hanno caricato on line, ma decide che li farà oggi pomeriggio. Tanto, ha tutta la giornata davanti. Accende l’impianto hifi, e i decibel di un pezzo trap invadono l’appartamento.

Cencio si insapona le mani sotto il getto dell’acqua tiepida, contando mentalmente fino a venti, come hanno detto di fare alla televisione. Ma presto perde il conto per il chiasso a tutto volume che proviene dalla camera di suo figlio. Il rumore che ha il coraggio di chiamare musica… Cencio scuote la testa e ricomincia paziente a contare, strofinandosi bene le dita, poi si asciuga le mani e afferra la maniglia della porta. Ritrae la mano come se scottasse, chiedendosi se Marisa si è ricordata di passarci l’Amuchina. Nel dubbio, si rilava le mani. Cencio ha deciso di non ascoltare più ossessivamente i telegiornali come faceva fino a ieri. Le notizie non sono mai buone, e soprattutto non dicono mai quando finirà questa reclusione forzata. Aprile? Maggio? Cencio non sa nemmeno come farà ad arrivare a domani. Gli manca il lavoro, gli manca il calcetto con gli amici, gli manca uscire di casa e sentire il desiderio di rincasare. E soprattutto, è preoccupato per la sua piccola attività, costretta alla chiusura forzata. Apre la porta del bagno spingendo la maniglia col gomito, e sterza verso la camera del padre.

Nonno Alfiero sta seduto davanti alla portafinestra spalancata, il cappello calato sulla testa, il volto rugoso appoggiato alle mani che tengono il fido bastone da passeggio. Una vecchia quercia diventata fragile e bisognosa di protezione. Cencio prova il consueto moto d’affetto, ma gli siede discosto per prudenza.
«Che fai, bbà?».
«E che ho da fa’, o fi’».
Un copione affettuoso, sedimentato dalla quotidianità. Cencio guarda fuori dalla portafinestra. Un tricolore sventola, un po’ sghembo, attaccato ai fili del bucato. Un piccione sta facendo la corte alla femmina sul cornicione del palazzo di fronte. Li guardano per un po’, in silenzio, contenti di essere insieme. Cencio fa per alzarsi, quando Alfiero esclama all’improvviso:
«Te l’ho raccontato mai di quella volta che esplorammo la Grotta del Cataletto?».
Cencio si risiede. Di solito, quando il vecchio attacca con le rimembranze, lo ascolta distratto, perso dietro le sue faccende quotidiane. Ma ora che la vita normale si è fermata, lasciando il posto a una strana sospensione, si vuole mostrare attento.
«Non mi pare, bbà».
Alfiero non distoglie lo sguardo dai piccioni, e inizia a parlare.


«Te lo ricordi quando c’avevamo la terra giù al Signorino? No, non te lo poi ricordà, eri ancora fijo quando l’avemo venduta. Non te poi ricordà manco de Girolamo, quell’amico mio che sapeva levà il malocchio».
Il qui e ora di Alfiero sono i ricordi della sua vita trascorsa, popolati di giocatori che hanno abbandonato la partita prima di lui. Il passato è un presente accogliente in cui lui si trova a suo agio. E i suoi racconti sono vividi e colorati con i chiaroscuri di un dialetto che non ha mai voluto abbandonare. Cencio guarda il profilo di suo padre, e pensa che anche lui diventerà così, a quell’età. Sempre se ci arriva.
«No bbà, non me lo ricordo».
«C’encontravamo giù ma la fraschetta a Piascarano, e bevevamo ‘mbicchiere di vino insieme dopo il lavoro. ‘Na sera arrivo e li trovo che stavano a parlà a bassa voce, Girolamo e artri due che conoscevo: ‘l Panzone e Meco de la Marianella. Me metto seduto pur’io, e capisco che stanno a organizzà ‘na spedizione.
– A Girò, ma avemo da scavà?? – fa ‘l Panzone, ‘mpo’ preoccupato.
– Noo! – j’arisponne quelue – adè ‘n cunicolo già scavato -.
– Sì, ma poi che avemo da cercà? – je fa Meco.
Je l’avrei voluto chiede pur’io. Anche se ero sempre pronto a partecipà a st’uscite. Ce piaceva pijà giù pe’ le tajate de tufo, e fermacce poi a magnà al mi casaletto. Girolamo ce sapeva fa’ su bene, co’ quei racconti de streghe e diavolacci, anche se non ho mai capito se c’era o se ce faceva. Pe’ fattela breve, stavano a organizzà ‘n’esplorazione de la grotta del Cataletto».
Cencio si toglie un pelucchio dalla felpa e gli chiede:
«Dove sta la grotta del Cataletto, bà?»
Alfiero si gira a guardarlo spazientito. Non capisce queste giovani generazioni, che girano il mondo e poi non sanno niente della terra loro.

La foto è di Gianluca Braconcini


«In strada Signorino, a scenne… a ‘n certo punto te la trovi sulla destra», e mima il gesto con le mani. «N’apertura grande, che pare la bocca spalancata de qualche animale. Oggi ce passano davanti le machine sparate, e nessuno ce fa più caso. Girolamo ce disse che da ‘n lato partiva un cunicolo, che proseguiva dentro pe’ parecchio. E da qualche parte, nascosto lì dentro, disse che c’era… ‘n tesoro! ‘Na gallina d’oro massiccio! Dodici purcini, pure quelli d’oro! che stavano a aspettà che qualcuno l’aritrovasse».


Cencio ha perso interesse per i piccioni, e per la bandiera sventolante sul balcone dirimpettaio. La moglie si affaccia dalla porta e vede padre e figlio assorti a chiacchierare. Fanno un bel quadretto, incorniciati dalle tende di raso scostate. Di fuori, fa capolino un cielo azzurro smalto. Nel racconto di Alfiero, il cielo diventa un soffitto di terra scura.
«‘Nsomma, decidemo de annà il venerdì sera. Meco portava le torce di canna, ‘l Panzone avrebbe portato da magnà. Alle nove stavamo tutti e quattro davanti all’imboccatura della grotta. Girolamo s’era portato ‘l su bastone, quello tutto lavorato strano che dicevano je l’avesse dato ‘l diavolo in persona. Sarà stata l’atmosfera, sarà stato il silenzio… guardavo quel buco nero do’ dovevamo entrà, e me cominciavo a cacà sotto. Ma non lo volevo dà a vedé. Girolamo roteò ‘l bastone, disse qualche formula strana sottovoce, poi se girò verso de noi e disse: – Entramo! Meco faceva luce co le torce, e s’accodò a Girolamo ch’era entrato; io e ‘l Panzone li seguimmo. ‘L cunicolo era comodo, anche se in certi punti s’abbassava de parecchio. Camminavamo spediti, ma spesso ‘mboccavamo corridoi ciechi e ce toccava tornà indietro».


Luca si è deciso ad uscire dalla sua cameretta e va verso la madre, appoggiata allo stipite della porta del nonno. Vorrebbe chiederle quand’è pronto il pranzo, ma la vede intenta ad ascoltare qualcosa che il nonno sta raccontando a papà. Incuriosito, si avvicina per ascoltare anche lui.
«Com’era l’aria lì dentro, bà?» fa Cencio, che al pensiero di star dentro ad un cunicolo si sente soffocare.
«Se respirava, anche se certo ‘n era aria fina… A ‘n certo punto, ‘l soffitto s’abbassò talmente tanto che ce toccò striscià pe’ ‘mbel pezzetto, poi la volta se risollevò e proseguimmo ancora. Cercavamo qualche segno che ce potesse portà al tesoro. Ma ‘l Panzone se cominciava a stancà, e se te devo dì la verità, me sentivo stanco pure io. Non c’era niente, lì sotto. E poi, non te so dì, ma c’avevo la sensazione de sentimme osservato. – A Girò, che avemo da fa?- je chiesi. – ’Nc’è manco l’ombra de ‘n tesoro miqquaggiù -. Girolamo se fermò all’improvviso, chiuse l’occhi e mosse nell’aria quel suo bastone strano. – Annamo avanti ‘n antro po’-, rispose poi. E ‘ntanto biascicava tiritere a bassa voce. Avremo fatto almeno ‘n paio de chilometri sotto terra, quando arrivammo a ‘n’altra biforcazione. Se fermammo lì tutti e quattro: Meco teneva alta l’unica torcia rimasta accesa, ‘l Panzone c’aveva ‘l fiatone, io c’avevo ‘l calzone strappato sul ginocchio. Del tesoro manco la puzza, e d’altronde, nessuno di noi c’aveva fatto troppo affidamento.
Guardammo tutti il capo spedizione, pe sapé se dovevamo prende a sinistra o a destra e uscì fori finalmente dal quel cunicolo buio. Girolamo ce pensò su ‘n attimo, poi imboccò a sinistra. Noi j’annammo dietro, sperando che fosse la scelta giusta. Era ‘n corridoio lungo e dritto, un po’ in salita. L’altri erano arrivati quasi su in cima. Io chiudevo la fila e stavo ancora a metà, quando sentii un rumore venì dalla biforcazione. A Cè, me s’è gelato ‘l sangue… me se so’ paralizzate le gambe, non je la facevo a proseguì».


Alfiero ha abbassato la voce. Luca si avvicina in punta di piedi, per non perdersi nemmeno una parola. Questa storia è avvincente come quelle che vede alla televisione a pagamento. Marisa gli va dietro.
«Che era quel rumore, bà??» fa Marisa. Alfiero si gira, ed è contento di avere per una volta un folto uditorio. E conclude il suo racconto, con il pathos di un attore consumato.
«Me sò voltato, piano, perché c’avevo paura de guardà. All’inizio, non ho visto niente. E pensai de èssemelo sognato: l’aria viziata, la stracchezza, quel gojo e le su’ formule magiche… Ma poi ho visto un chiarore, prima leggero, poi sempre più forte. E ho inteso ‘na musica strana. Dalla svolta giù in fondo è scappato fori un omo tutto vestito d’oro, e poi subito ‘n altro appresso. Solo che ‘n erano omini, erano diavoli! Co le corna e la barba de capra!!! E mandavano ‘na luce che rischiarava tutto ‘l corridoio! Co altri due portavano su le spalle ‘na specie de lettiga tutta luccicante… e sopra ‘l catafalco ce stava ‘n altro, seduto su un trono, come se fosse il re dei diavoli ‘mpersona… Io me so girato pe chiamà quell’altri, ma ‘n se vedevano più. Non m’avevano aspettato. ‘l tempo de giramme ‘n’ altra volta, e quel corteo era già passato. C’era solo il chiarore, e quella musica strana, e poi più niente».
«E poi che hai fatto??»
«Me so’ trovato da solo al buio. ‘l core me batteva così tanto nel petto, che sembrava volesse scappà via prima de me da quel postaccio ‘nfame. Ho fatto du’ passi nella direzione dove erano fuggiti quell’altri, e ho rivisto ‘n altro chiarore, giù in fondo… Arieccoli! ho pensato. Ma era Meco co la torcia accesa, che me stava a venì a cercà. «Alfiè! Alfiè!! Che stai a ffà?? ‘Nnamo!». Meco m’accompagnò pe’ quel tratto che ce separava dall’uscita. Girolamo e ‘l Panzone erano già fori, nella notte nera. Ho respirato forte, e ho cercato de calmamme ‘n tantino. Non me chiesero niente, ma tanto non j’avrei detto niente de quello che avevo visto. E non l’ho raccontato mai a nessuno, mai fino ad oggi».


Alfiero tace. Di fuori, da qualche apparecchio radio, risuonano le note dell’inno italiano. Marisa, Cencio e Luca sono come imbambolati. Alfiero li guarda e poi sbotta:
«A boccaloni! Ma che ci avete creduto?» e scoppia in una risata fragorosa.
«A no’, sei proprio il peggio» fa Luca scuotendo la testa. «Ma ti voglio bene lo stesso».
«Vabbè, io vado a mettere su l’acqua per la pasta» aggiunge Marisa con un sorriso. Luca la segue in cucina. Cencio è rimasto seduto a pensarci su. Poi sorride anche lui al padre, a quell’uomo che in vita sua ne ha viste tante. E che oggi si è ingegnato per regalare un volo di fantasia ai suoi familiari. Quel poco che è bastato a rendere le pareti di casa meno opprimenti. Fa per abbracciarlo, poi si ricorda che non si può.
«Che te possino, bbà» gli dice. E lo lascia solo davanti alla finestra.
Alfiero resta ancora un poco seduto, con aria soddisfatta. Poi si alza un po’ a fatica, facendo perno sul bastone, e va verso la sua libreria. Sfiora con le dita i dorsi, rileggendo i titoli, e si sofferma sul Decameron. Il libro è consunto dal tempo e dalle tante letture. Lo sfila delicatamente dalla mensola, rivelando un cofanetto nascosto dietro. All’interno, in un tenue chiarore, c’è una piccola testa di uccello in metallo giallo. Sembrerebbe quella di un pulcino.

Anonimo

Scritto da:

Donatella Agostini

Imparare cose nuove è il mio filo conduttore, darmi sempre nuovi obiettivi la mia caratteristica fondamentale. Valorizzare la terra in cui vivo è il mio progetto attuale.