La mamma aprì all’improvviso la finestra, e l’aria ghiacciata del lunedì mattina penetrò all’istante in ogni angolo della stanzetta. Fu il gelo, più che la chiamata perentoria, a svegliare Marietto e Lorenzo dal loro sonno innocente di bambini. I fratellini dormivano nello stesso letto, uno da capo e uno da piedi, ingolfati nei maglioni e condividendo lo stesso scaldino di coccio, con la carbonella ormai fredda. Era dura lasciare il calduccio che si era creato sotto la coperta, ma la mamma non voleva sentire ragioni. Era ora di alzarsi e di vestirsi per andare a scuola.

I due bambini si lavarono il viso nella bacinella, con il sapone nerastro che la mamma faceva con il grasso e la cenere, poi indossarono i loro abiti, smessi da qualcuno, che malgrado la guerra e la fame era riuscito a crescere abbastanza da non poterli più portare.

Era un febbraio freddo e nero di nuvole, ma sia d’estate che d’inverno, per loro l’abbigliamento era sempre lo stesso: calzoncini corti e gambe nude, che col freddo si chiazzavano di macchie bluastre che prudevano. Ai piedi calzarono scarpe di pezza, fatte con la stoffa pesante di vecchi pantaloni da lavoro. I bimbi ingollarono un bicchiere di latte e s’incamminarono verso la scuola elementare.

Viterbo si stava risvegliando dopo le ferite mortali della guerra, e quelle macerie ancora ammucchiate dove un tempo c’erano state case e vita stavano per essere rimosse. Nell’aria c’era stupore, e la gioia per essere ancora vivi, c’era la voglia di riprendere una vita normale. E i bambini rimanevano pur sempre bambini, con intatta la voglia di ridere e di giocare malgrado le ristrettezze.

Lungo la strada, Marietto pensava alla sfida a battimuro che li aspettava finita la scuola. Era un campione a lanciare monetine contro il muro e a farle cadere vicinissime a quelle lanciate dagli altri, vincendogliele via da sotto il naso. L’ultima volta era riuscito a soffiare tutti i centesimi del loro amico-nemico Dighidone, che stamani voleva a tutti i costi la rivincita. Sempre di non imbattersi nel “Monumento”, quel feroce vigile urbano ciccione che si divertiva a prendere a pappate chi giocava a battimuro, con la scusa che fosse vietato dalla legge.

«Li hai portati?» chiese Marietto al fratello.
Lorenzo mise una mano nella tasca dei calzoncini e tirò fuori cinque o sei centesimi che mostrò al fratello.
«Oggi je famo vedé chi semo a Dighidone».

La mattinata volgeva al termine, e i due fratelli scalpitavano impazienti sotto il banco. Ad un tratto, un grido di stupore: un compagno si era affacciato alla finestra, e indicava con la mano fiocchi bianchi che aleggiavano lievi nel cortile.
«Nevica!!!». In quel mentre, suonò la campanella. Gli scolari si alzarono di corsa dai banchi e si precipitarono all’esterno, con le braccia alzate e a faccia in su.

Dal cielo scendevano sempre più fitti leggeri fiocchi di neve, a coprire con un manto delicato le brutture della guerra. Con uno strilletto di gioia, Lorenzo raccolse un mucchietto di neve tra le manine arrossate e ne fece una palla. Strizzò l’occhio al fratello e gli disse:
«Annamo Marié, famoje vedé chi semo a Dighidone»

Nella foto, Marietto e Lorenzo. Mio zio e mio padre, che riuscirono a restare bambini malgrado la guerra e le ristrettezze, e insieme a tutti gli altri hanno costruito un mondo migliore per noi che siamo venuti dopo.

Anonimo

Scritto da:

Donatella Agostini

Imparare cose nuove è il mio filo conduttore, darmi sempre nuovi obiettivi la mia caratteristica fondamentale. Valorizzare la terra in cui vivo è il mio progetto attuale.