La Viterbo di oggi dilaga come una macchia oleosa di asfalto e di cemento, ben oltre la cerchia vetusta delle sue mura. Quartieri, palazzi, parcheggi, punteggiati da alberelli coraggiosi e da aiole fiorite. Certo, qualcosa di molto diverso da come doveva essere, tanti tempo fa, il paesaggio al di fuori dell’abbraccio sicuro della cinta muraria. Dove oggi vediamo grandi quartieri, c’era una fiorente campagna. Orti e coltivazioni a perdita d’occhio, serenità e laboriosità contadina. La grande maggioranza dei viterbesi usciva all’alba da casa e si recava a lavorare il proprio appezzamento di terra, che serviva a sostentare l’intera famiglia. Uva, olive, ortaggi, per la famiglia e per il mercato, ma anche, inaspettatamente, canapa e lino, che erano una vera coltivazione industriale.

Le fibre tessili si coltivavano intorno all’area termale, e i campi circostanti erano celestini di lino in fiore. I fasci di steli venivano messi a macerare nell’acqua molto calda del Bullicame e del Bagnaccio, e mantenuti sott’acqua da pietre per impedire loro di galleggiare. Successivamente venivano estratte le fibre dai fusti tramite la battitura e la pettinatura. Il paesaggio intorno l’area termale era disseminato di apposite vasche, canalizzazioni e stenditoi per l’asciugatura degli steli, e l’intero processo dava lavoro a moltissime persone.

Nel 1460, Enea Silvio Piccolomini, un raffinato umanista diventato papa con il nome di Pio II, soggiornò a Viterbo per curarsi alle Terme. Nei suoi Commentari così scrisse, parlando della nostra città:

«Piaceva a tutti la gentilezza, l’amabilità della popolazione, l’incanto del luogo. Qui è rara una casa senza una fonte d’acqua corrente, né mancano i giardini».

E nelle sue giornate viterbesi, papa Pio II usciva dalla città «quasi ogni giorno, alle prime luci dell’alba, per respirare l’aria piacevolissima della campagna prima che si scaldasse e per contemplare le verdi messi e i campi di lino in fiore che imitavano il colore del cielo… in nessun altro luogo si seminano più numerosi e più estesi campi di lino, che sia per la natura del suolo sia delle acque nelle quali si macera è migliore e costituisce la prima fonte della ricchezza di Viterbo».

La canapa – e soprattutto il lino – furono la più importante risorsa economica della Viterbo medievale e rinascimentale. Il lino prodotto a Viterbo era considerato di altissimo livello, al pari di quello pregiato di Napoli: i mercanti venivano da ogni parte d’Italia ad acquistarne in grandi quantità. Canapa e lino si sono coltivati a Viterbo fino agli anni Cinquanta del secolo scorso. Poi, la modernità: l’avvento delle fibre sintetiche ha spazzato via questa nostra coltivazione di eccellenza.

Il progresso ha spazzato via anche gran parte degli orti: restano le monocolture delle grandi aziende agricole, limitate alla zona di Castel D’Asso. Chissà che impressioni avrebbe ora Enea Piccolomini, nel contemplare un paesaggio così profondamente trasformato. La nostra centenaria vocazione agricola è stata soffocata, e ha lasciato un grande vuoto, che non è stato colmato da fabbriche come da altre parti in Italia. E forse sbagliamo, quando tentiamo di colmarlo costruendo un ennesimo centro commerciale.

Anonimo

Scritto da:

Donatella Agostini

Imparare cose nuove è il mio filo conduttore, darmi sempre nuovi obiettivi la mia caratteristica fondamentale. Valorizzare la terra in cui vivo è il mio progetto attuale.