“Canti di un morto
Il sole indora Chia con le sue querce rosa e gli Appennini
sanno di sabbia calda. Io sono un morto di qui, che
torna, oggi, 5 marzo 1974, in un giorno di festa…”

Questi versi sono tratti da un componimento poetico di Pier Paolo Pasolini presente nell’ultima raccolta pubblicata in vita dall’autore: “La meglio gioventù”. La poesia nasce in friulano, la lingua materna, quella della voglia di tornare alle radici e parlata da coloro amati con dolcezza; i versi qui proposti sono però in italiano per una più fruibile comprensione, tradotti da Pasolini stesso.

Perché cita la piccola Chia? Ebbene forse non tutti sapranno che Pasolini, uno dei maggiori intellettuali del ‘900 italiano, trascorse molto tempo nelle nostre terre e nel 1970 riuscì ad acquistare la Torre di Chia che lo aveva colpito sin dal 1964, quando l’aveva vista durante un sopralluogo teso ad individuare il set per la scena del battesimo di Gesù nel film “Il Vangelo secondo Matteo”.

Il paesaggio dell’epoca ce lo dobbiamo immaginare non molto diverso da oggi: accidentato, malinconico, selvaggio, dominato dal rudere pentagonale che da adesso in poi chiameremo Torre di Pasolini a spiccare sul burrone nel quale confluiscono a creare cascate i due ruscelli del fosso Castello.

Pasolini si fece costruire nella torre un’abitazione rigorosamente armonica con la struttura preesistente per non corrompere più del dovuto la sacralità della natura e “rispettare il confine naturale tra la forma della costruzione e la forma della natura circostante”; il risultato è una casa/rifugio integrata nel paesaggio, con pareti fatte di pietra viva, grandi e luminose vetrate e aggiunte lignee.

A Chia Pasolini poté trovare momenti di pace in quelli che, nessuno sapeva, sarebbero stati gli ultimi anni della sua vita. Qui lavorò alacremente alla sua ultima opera rimasta incompiuta e di cui oggi possiamo leggere 522 pagine delle 2000 previste. Di “Petrolio”, titolo dato al romanzo, furono trovati nella Torre un abbozzo del manoscritto dal titolo provvisorio “VAS”.
Egli si diede molto da fare per integrarsi nel tessuto sociale del minuscolo paese; ai nuovi concittadini viterbesi l’autore offrì tutta la sua solidarietà e spese la sua conosciuta immagine a favore di alcune iniziative come la protesta degli studenti viterbesi dell’allora LUT (Libera Università della Tuscia) per far riconoscere l’Ateneo come statale. Nel 1979 il successo coronò il progetto: veniva creata l’Università degli Studi della Tuscia.

Anonimo

Scritto da:

Viola Vagnoni

Nella vita vorrei fare tre cose: dormire, mangiare e vedere/leggere fiction.
Se però mi trovate qui vuol dire che ne ho aggiunta una quarta ovverosia scrivicchiare.
Mi pare lapalissiano che non volevo farlo ma la vita è per la maggior parte composta da cose che non si vogliono fare.
Ci sono poi state anche altre aggiunte fastidiose alla sacra triade: una laurea in filologia moderna, un lavoro a tempo pieno, una casa da gestire (male), la fantasticheria buffa di voler fare la professorona.
Ma chi me lo fa fare di alzarmi la mattina, guardate.