Ricordate com’era l’esperienza di andare al cinema quando le sale erano il Metropolitan, il Genio, l’Azzurro…?

Io ricordo la sensazione di appiccicarmi al pavimento ad ogni passo fatto all’Azzurro; quelle gomme da masticare erano una maledizione però è anche la pennellata nel dipinto dei miei ricordi che mi da più nostalgia insieme allo schienale delle poltrone vetuste con quella stoffa che pizzicava la pelle; andarci d’estate, con qualche centimetro in più di pelle scoperta, era una vera e propria tortura. Però in tutti questi anni non ho più trovato una seduta confortevole e accogliente a quella maniera. O almeno è così che il mio cervello romanticizza i flashback.

Del Genio invece mi sovviene sempre in mente la scalinata per entrare -con quelle cortine di pesante velluto rosso- ed il mio posto a sedere preferito: al secondo piano, in prima fila, alla destra delle scale d’ingresso; se andava bene ed eri un pochino bricconcella a luci spente potevi anche stendere i piedi e appoggiarli sulla balaustra.
Quando passo in Via dell’Orologio Vecchio sento mia mamma nelle orecchie: “sai, quando uscì Rocky IV fu un vero evento: al Genio scoperchiarono il tetto e aprirono il terzo piano; sìsì, hai capito bene, c’è anche un terzo piano! Non ho mai più visto un film scomoda in quella maniera!”.
Io invece non ho mai visto il fantomatico terzo piano, purtroppo.

Al Metropolitan c’erano quei piccoli “salottini” su in cima alla platea, con poche intime poltrone; nascosti dagli occhi degli avventori chissà quanti primi baci hanno visto quelle mura.

Mi piace coccolare i ricordi che ho delle sale cinematografiche di Viterbo; essi sono quasi tutti luminosi, caldi, famigliari; brillano nel marasma ineffabile delle reminiscenze. Andare al cinema, al Genio ad esempio, significava avere la serata piena: parcheggiare al Sacrario, passeggiare fino al Corso (magari fare qualche acquisto); se l’orario all’uscita non era troppo tardo prendersi un bel gelato da Chiodo e fare quattro chiacchiere con i genitori o la comitiva di amici;

Oggi le strutture che hanno contribuito a creare in noi viterbesi così tanti dolci ricordi stanno lì, dismesse, abbandonate: la memoria ne resta amareggiata -sfregiata quasi- ad osservare i simulacri di un modo di vivere che non esiste più, fondamentalmente di una Viterbo che non esiste più con un centro storico svuotato, a tratti degradato, non vissuto, abbandonato, miope nei confronti dei più giovani, deculturizzato, inadatto a montare sul treno del cambiamento che ormai è da anni in movimento.
Viterbo è bella, la Tuscia lo è. Forse siamo noi come comunità viterbese ad esserci abbrutiti, disinnamorati delle Mura e del Leone. Non so. Confido nella saggezza popolare: dal fondo si può soltanto risalire, no?

La foto è di Francesco Mecucci, tratta da un articolo per Move Magazine Viterbo da lui realizzato sugli edifici dismessi di Viterbo; potete consultarlo qui se vorrete approfondire: https://bit.ly/2k7m53M

Anonimo

Scritto da:

Viola Vagnoni

Nella vita vorrei fare tre cose: dormire, mangiare e vedere/leggere fiction.
Se però mi trovate qui vuol dire che ne ho aggiunta una quarta ovverosia scrivicchiare.
Mi pare lapalissiano che non volevo farlo ma la vita è per la maggior parte composta da cose che non si vogliono fare.
Ci sono poi state anche altre aggiunte fastidiose alla sacra triade: una laurea in filologia moderna, un lavoro a tempo pieno, una casa da gestire (male), la fantasticheria buffa di voler fare la professorona.
Ma chi me lo fa fare di alzarmi la mattina, guardate.